Ponte Morandi 2019





L’articolo del Quotidiano Adige pubblicato domenica 9 giugno 2019


ADIGE | 19-06-2019

Reportage eseguito per il Quotidiano “Adige” in collaborazione con l’arch. Alessandro Franceschini. L’articolo è stato pubblicato domenica 19 giugno 2019


Viadotto Polcevera, un reportage di Luca Chistè

di Alessandro Franceschini

Il 14 agosto 2018, durante un violento temporale estivo, il Viadotto Polcevera, collocato lungo l’autostrada A10 e costruito a metà degli anni Sessanta su progetto dell’ingegnere italiano Riccardo Morandi, è collassato improvvisamente su se stesso, provocando numerosi morti e feriti e lasciando senza collegamento viabilistico un’arteria di traffico fondamentale non solo per la città di Genova, ma per tutto il nord-ovest italiano. Terminato il lungo silenzio dedicato al ricordo delle 43 vittime, la discussione sui giornali si è concentrata sulle cause del crollo e sulle possibili soluzioni per la rapida ricostruzione di quello che era comunemente chiamato come “Ponte Morandi”. Il quale, suo malgrado, da orgoglio dell’ingegneria italiana del Dopoguerra è stato trasformato nell’emblema di un’inedita «questione infrastrutturale», legata allo stato di salute delle tante opere d’arte stradali e autostradali presenti nel nostro Paese. E avviando un lungo dibattito tra esperti che ha portato, il 12 febbraio scorso, all’inizio dei lavori demolizione dell’opera.

A distanza di oltre nove mesi da quel drammatico evento, durante la giornata del 1° maggio, di una Genova insolitamente vuota ma con le maestranze al lavoro, il fotografo Luca Chistè si è recato sul luogo del crollo per immortalare, in un reportage costruito con il suo consueto stile di lettura, lo stato della «ricostruzione» del viadotto. Come i resti di una civiltà scomparsa, le ponderose pile sopravvissute al crollo del viadotto si stagliano verso il cielo diventando una sorta di «grido» di ferro e cemento. Orfane degli arditi stralli che avevano reso il «Morandi» uno dei viadotti più studiati al mondo, le strutture verticali si mostrano in tutta la loro tracotanza umana. Simili a torri di Babele incompiute, evocando la precarietà delle opere dell’ingegno umano al cospetto dei tempi naturali, queste strutture di cemento armato hanno la forza di evocare, nella loro silenziosa attesa, i limiti del fare degli uomini. Private della continuità della sede stradale, le pile sembrano aver perso il senso della loro funzione candidandosi ad essere un temporaneo, struggente, paesaggio della memoria.

Ma gli scatti di Chistè non si limitano solo a fermare il gioco che i resti del viadotto Morandi compiono con il limpido e cangiante cielo ligure, quasi fossero morte presenze in un sito archeologico dimenticato. L’obiettivo del fotografo si abbassa per cogliere quello che accade a livello del suolo. Perché sotto il viadotto c’era, e c’è ancora, tutta una città. I quartieri di Sampierdarena e Cornigliano di Genova: un mondo che non ha avuto l’onore delle cronache né durante la costruzione, né durante l’esercizio, né durante il crollo del viadotto. Un microcosmo fatto di donne e di uomini che, in un attimo angosciante, si sono visti letteralmente crollare il mondo addosso. Il tonfo assordante del viadotto ha coperto magicamente, come in una sorta di diabolico sortilegio, il rumore operoso di quella parte di città, lasciando, ancor oggi, una patina silenziosa e timorosa nelle gesta e nelle azioni degli uomini che vivono all’ombra di quel viadotto. Una prudenza che può avere solamente chi si è visto crollare, letteralmente, il cielo sul capo.

Sulle cause del crollo sono state scritte centinaia di pagine, senza arrivare ad una risposta univoca e convincente, capace di mettere d’accordo periti ed ingegneri strutturisti. Qualcuno ha parlato di problemi strutturali originariamente presenti nella costruzione stessa del viadotto; altri hanno puntato il dito sulla reiterata mancanza di manutenzione dell’opera d’arte che ha portato ad una progressiva compromissione della componente strutturale; altri ancora – ed è forse questa la tesi più convincete – hanno messo in relazione il crollo del ponte al progressivo aumento di traffico veicolare sull’A10. Un traffico, quello gravante sul Viadotto Polcevera che, a partire dagli anni Settanta, è aumentato annualmente del 330%, senza interruzioni, costringendo le strutture in cemento armato precompresso a lavorare su carichi per i quali non erano state nemmeno immaginate. Facendo intendere, paradossalmente, che il Ponte Morandi sia stato vittima del suo stesso successo.

Il crollo del Polcevera rimane una ferita insanata nel cuore del nostro Paese. Una ferita capace di aprire molti interrogativi. A partire dalla simbolica conclusione di un’epoca irripetibile per l’Italia. Gli ultimi cinquant’anni, infatti, sono stati il periodo della grande crescita del nostro Paese. Il periodo dell’infrastrutturazione della Penisola, con la costruzione delle grandi arterie ferroviarie e autostradali. Un’epopea, in cui, mentre l’ingegneria italiana insegnava al mondo come si dovevano costruire i viadotti e le autostrade, politici illuminati e coraggiosi tracciavano visioni di futuro per un Paese che si stava lentamente rialzando dalle macerie della Seconda guerra mondiale. La strada a scorrimento veloce era solo l’epifenomeno di un fermento popolare, di una incontenibile voglia di vivere, capace di sfidare le altezze più ardite e gli sbalzi più vertiginosi nel nome del progresso e della tecnica.

Ecco perché con la caduta del Ponte Morandi non è solo crollata una delle opere d’ingegneria infrastrutturale più belle del nostro Paese. È anche finita tutta una fase di storia dell’Italia. Il filo malinconico che accompagna le foto di Chistè ci testimonia anche questo. Ci parla di un’Italia impaurita, spaventata, incapace di reagire ai drammi della vita per immaginare il proprio futuro, impegnata solo a gestire l’emergenza. Ed è anche per questo che, a fianco del lavoro di architetti e ingegneri intenti a progettare il nuovo viadotto, è necessario anche l’avvento di un nuovo «miracolo economico», guidato da un classe politica illuminata, capace di fare quanto fecero i nostri padri dopo la fine della guerra. Se non riusciamo a far questo, se non riusciamo a far diventare il progetto di ricostruzione anche qualcosa di socio-economico, il Ponte Morandi forse starebbe meglio così com’è, immortalato dagli scatti di Luca Chistè: rovina ancestrale di una civiltà scomparsa, metafora muta della tracotanza umana, emblema di un’epoca oramai lontana, destinata a non ripetersi più.

PONTE MORANDI | 1 MAGGIO 2019


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